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Set 25, 2016

Suor Irene tra fuoco e fiamme (Venezuela)

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La presenza di suor Irene nella vita e missione di suor Teresa Tesser

Il tempo passa, ma certi ricordi rimangono vivi per sempre, specialmente quando si è vissuto un avvenimento che ha dell’incredibile, come quello che voglio raccontare, nel quale ho sperimentato la protezione dell’allora Serva di Dio suor Irene Stefani.

La Provvidenza volle che le Missionarie della Consolata aprissero una missione tra gli indigeni Yekuana Sanemá dell’Alto Sentuari – un meraviglioso affluente del fiume Orinoco. Vi si accede solo per fiume o per “avioneta”: piccolo aereo per 6/8 passeggeri. Siamo in Venezuela, nello stato Amazzonia, che confina con la Colombia attraverso il fiume Orinoco e a sud con la foresta vergine amazzonica. La capitale è Puerto Ayacucho; Tencua e Puerto Unión sono i due villaggi costruiti su un lembo di terra strappato alla foresta e da qui si sente il fragore della spettacolare Cascata di Tencua.

Con l’annuncio del Vangelo, le Missionarie della Consolata fanno conoscere anche Suor Irene, alla quale si ispirano per una evangelizzazione inculturata e una testimonianza alle stile di Irene.

Le mamme Yecuana l’hanno voluta come protettrice dei loro bambini: hanno chiesto l’immagine della santa missionaria per metterla alla base del lunghissimo palo centrale della scuola materna –  che ha la forma della “chiuruata”, la casa tipica yekuana – insieme a erbe sacre, conchiglie e la bevanda tradizionale Yarache. Durante il rituale le mamme hanno chiesto, attraverso le preghiere, i canti e le danze, che la chiuruata non cada mai sopra chi vi è dentro, non prende mai fuoco e non lasci entrare gli “spiriti cattivi”, come le malattie e altre cose negative. La punta del palo, inoltre, comunica con Wanadi, lo spirito buono.

Gli indigeni delle varie comunità dell’Alto Ventuari si spostano con canoe a motore fuori bordo. Dovuta la distanza da Manapiare – dove si trova l’unico distributore di combustibile – si è provveduto all’acquisto di una cisterna di 36.000 litri, in cui depositare la benzina, ed avere così anche a Tencua la possibilità di rifornirsi.

Era un sabato: tutti gli indigeni erano in allerta, pronti per dare una mano quando sarebbe arrivato da Puerto Ayacucho il carico che l’amministratore salesiano inviava per la missione: si trattava di prodotti di prima necessità, 25.000 litri di benzina e varie casse di olio per la miscela. Verso le 12, approda al porto della missione la “gavarra”, la piccola imbarcazione: le famiglie di mettono sulla riva scoscesa del fiume, dove parcheggiano le loro rispettive canoe. Dopo l’accoglienza gioiosa della comunità Yekuana al capitano e ai due marinai, si procede a un lavoro a catena per cui in un baleno tutta la merce si trova ammucchiata sul prato, in attesa di essere stipata nell’apposito magazzinetto, chiamato “Cooperativa di Tencua”. Sono rimasti nella gavarra le 5 cisterne di benzina da 5.000 litri l’una.

Le previdenti donne Yekuana chiedono ai marinai di trasportare varie decine di sacchi di “maguoco”, mandioca tostata, da vendere ai commercianti di Puerto Ayacucho. I sacchi sarebbero stati caricati dopo aver travasato il combustibile nella cisterna comunitaria. Ora si deve navigare 300/400 metri, dove, nell’ampia curva del fiume, si trova la piccola montagnola che ospita la cisterna; di qui si vede e si sente la cascata il cui fragore rompe costantemente il meraviglioso silenzio della foresta. I bambini non mancano, come sempre, e ci accompagnano anche oggi, in questo delicato lavoro del travaso. Ma dico loro di scendere dalla gavarra, così rimaniamo a bordo solo i tre marinai ed io. Arrivati ai piedi della montagnola, comunque, spuntano uno dietro l’altro i ragazzini, e iniziano a ruzzolare su è giù dalla barca.

Giovanni Arrisa, il responsabile, predispone la cisterna per ricevere il combustibile. In un lampo i marinai, collegate le gomme alla motopompa, nuova di zecca e con sistema antincendio, fanno fluire il liquido verso l’alto, fino all’imboccatura della cisterna. Ho notato, però, che il marinaio aveva fermato la lunga gomma con un fil di ferro; non mi preoccupo, penso che lui è del mestiere e sa quel che sta facendo. Tutto procede bene: i bambini scendono dall’imbarcazione e si tuffano nell’acqua; il capitano chiacchiera con Giovanni seduti su di un tronco; il marinaio più giovane è seduto sulla moto pompa insieme a un giovane sanemá; io con l’altro marinaio visito la gavarra, e trovo interessanti le spiegazioni che me ne dà l’uomo, che scoperchia le due cisterne già svuotate in fermate precedenti, e poi le ricopre in fretta, dicendomi che sono molto pericolose, come delle bombe, a causa del gas che ha lasciato il carburante.

Ma ecco che il mio presentimento sul fil di ferro sembra avverarsi: per lo sforzo di mandare su la benzina, si stacca la gomma e in pochi secondi ci troviamo la piattaforma inondata di carburante e dopo poco questo inizia a scendere come una cascata nel fiume. Con una mossa lampo il marinaio che si trova con me spegne la motopompa antincendio; essendo surriscaldata, nonostante il breve tempo di lavoro, ne è venuta un’esplosione con scintille e fuoco che investe il giovane marinaio in pieno petto e volto, mentre gli altri due, correndo verso di me, hanno le scarpe e i piedi incendiati.

Trovandomi all’entrata della cabina, dove non è per miracolo entrata la benzina, mi spingono a terra e passandomi sulle spalle si gettano nel fiume. Uno solo grida a gran voce: “Va a estallar” (scoppia) “Teresa, buttati nell’acqua, sta per venire la fine del mondo”. Io come impietrita non so cosa fare: davanti e tutt’attorno fuoco, il fiume, in quel punto profondissimo e con mulinelli micidiali… Ricordo che vedevo l’acqua sottostante scura, sentivo il sibilo del fuoco che divorava un grosso telone imbevuto di benzina, i lamenti del marinaio che gridava, mentre l’altro era preso dagli spasimi.

Alla fine, mi lascio andare. Chissà quanto fondo ho toccato: mi sono trovata immersa, tranquilla, non affogavo… vedevo tutto grigio… e ad un tratto mi trovo fuori la testa, a pochi metri avanzava il fuoco. Ho guardato la riva: era troppo lontana perché io la raggiungessi senza saper nuotare… Allora ho offerto la mia vita e ho detto: “Gesù, ora ci vediamo”. Ritorno giù, giù verso il fondo… per la seconda volta ritorno a galla, quando con la mano afferro un ramoscello: capisco che sono vicina alla riva. Mentre mi immergo per la terza volta, alzo istintivamente il braccio, quando la mia mano trova un grosso ramo: è la mia salvezza!

Uscita dall’acqua, mi ritrovo vicino ai due marinai, esausti per il dolore, i quali continuano a dire: “Scappiamo, che da un momento all’altro qui sarà un inferno!” Ci avviamo verso il villaggio, sostenendoci l’uno con l’altro: i piedi dei due sono gravemente ustionati e il volto e il torace del più giovane ancora di più. Un terribile dubbio attraversa la mia mente: “I bambini dove sono?” Lascio i due marinai e corro di nuovo verso la gavarra in fiamme, nonostante la supplica del marinaio che attende da un momento all’altro l’esplosione, con nuvole di fuoco ovunque. Sul posto c’è solo il fuoco e la colonna di fumo e non mi accorgo che lì vicino il piccolo Edison si è aggrappato ad un albero, tutto spaventato: lo troveranno dopo mezz’ora quando i genitori si accorgeranno che non si trova con gli altri bambini. Questi li ho visti nella canoa al largo con Giovanni e il capitano, fuggito anche lui lasciando il tutto alla sua sorte.

Ritorno sui miei passi per aiutare i compagni, quando saltando un fossato scivolo battendo il fianco destro su un grosso tronco bagnato. Il colpo è fortissimo, mi dà un dolore che mi toglie il respiro. Comunque procediamo lentamente, fino a incontrare gli Yekuana che dalla missione, vedendo la colonna di fumo hanno capito la gravità dell’incidente. Alfredo Caypara, nostro aiutante, vedendomi mi abbraccia dicendomi: “Suor Teresa, sei viva, sei viva!” perché i bambini, avendo visto da lontano il mio tuffo nel fiume, sapevano che la corrente mi avrebbe trascinato via. Finalmente, tutti e tre più il capitano, insieme a tutta la gente corsa con le sue poche cose alla “chiuruata” della missione, si parlava dell’accaduto e soprattutto ci si aspettava da un momento all’altro l’esplosione dei 25 mila litri di benzina. Le mamme mi toccavano per rassicurarsi che fossi io e non il mio “spirito” e si rallegravano che fossi uscita viva dal fiume Ventuari.

Le sorelle avevano già comunicato in maniera sommaria a Puerto Ayacucho e all’impresa di combustibile il disastro e anche del pericolo che incombeva, così come dei marinai ustionati, rassicurando tutti che anche suor Teresa era uscita dal fiume. Ma perché ci credessero, ho dovuto far sentire la mia voce alla radio. Grazie a Dio era ancora chiaro, quando verso le 15.00 arriva il piccolo aereo: se non avesse potuto venire, forse il giovane marinaio non avrebbe passato la notte.

Gli Yekuana, esperti in casi difficili, quando si tratta di acqua e di fuoco, non tardano ad avvicinarsi con somma prudenza alla gavarra in fiamme. Se si pensa che Giovanni, vedendo divampare il fuoco, era salito sulla cisterna strappando la corda che teneva la lunga gomma piena di benzina dentro la cisterna, la quale poteva esplodere irrimediabilmente! Gli uomini, con cautela salgono sulla piattaforma, e vedendo i punti a rischio, coprono con coperte, amache bagnate fino a smorzare il più possibile il fuoco. Dopo due ore la voce degli abili Yekuana avvisa che il fuoco è domato e il pericolo scongiurato. Però gli uomini non abbassano la guardia, e ogni tanto durante la notte vanno a controllare la gavarra.

Alle prime ore di domenica si sente il motore del motoscafo e pochi minuti dopo una pompa antincendio che funziona mandando la preziosa benzina dalle botole della gavarra alla grande cisterna, senza farne cadere una goccia. Gli Yekuana, caricati i loro sacchi di magnoco, salutano la piccola nave di ritorno a Puerto Ayacucho. Anche noi quattro missionarie partiamo, per dirigerci a Caracas, dove si tiene l’assemblea conclusiva della visita canonica. Il lungo viaggio in fiume è faticoso. All’aeroporto della capitale, saputo dell’incidente, mi si offre il viaggio in un aereo privato. Le consorelle non potevano credere al racconto dell’avventura del giorno prima, ma le mie condizioni confermavano l’accaduto. La radiografia diceva: “costole false mal messe…” la terapia: riposo per due o tre mesi… La cosa mi preoccupava, perché avevo tanto lavoro da realizzare lì a Caracas, e poi ritornare presto alla missione. Ma il dolore intenso non faceva prevedere altre alternative.

Alla sera del lunedì eravamo riunite tutte le sorelle presenti in Venezuela, insieme con i nostri confratelli missionari abbiamo cantato di cuore il Magnificat, sia per la conclusione della visita canonica, realizzata da Madre Rina Carla, sia per la scampata tragedia del fuoco e dell’acqua in Tencua. Terminato il tutto, mi sono ritrovata sola e mi sono imbattuta in un vasetto di terra e schegge di legno scuro: era la reliquia che Madre Rina Carla ci aveva portato dal Kenya: terra e pezzetti della bara di suor Irene. Senza pensarci due volte, l’ho preso in mano e baciandolo ho detto il mio grazie di cuore a suor Irene per la sua protezione in tutta la vicenda, ancora così viva. Ho passato il vasetto nel fianco sofferente con fede, dicendo a suor Irene che mi curasse presto perché sapeva cosa mi aspettava nella missione.

Ho sempre sentito la presenza di suor Irene: per i bambini, che pochi attimi erano sulla barca e potevano itrovarsi con i piedi immersi nel liquido infiammato, avvolti nel fuoco. Per i marinai, già in cura all’ospedale di Città di Bolivar. Per la gente… la foresta verdeggiante e il fiume Ventuari che scorre ancora tranquillo…

La mia cara suor Alessandra Giraldo mi aiuta a coricarmi. Alla mattina, riesco ad alzarmi da sola, come se non fosse successo niente, e anche quel dolore acuto al fianco è sparito! Ho ripreso subito la vita normale e dopo pochi giorni torno felice a Tencua con le sorelle.

Al nostro arrivo alla missione, prima di scendere dal nostro piccolo motoscafo, facciamo il giro a quella benedetta curva dove brilla ai raggi del sole la cisterna, con i suoi 25 mila litri di benzina e anche se sott’acqua, quel benedetto ramo che mi ha salvato.

GRAZIE, SUOR IRENE! mi hai dato la prova della tua presenza nella nostra vita missionaria!

suor Teresa Tesser, MC

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